Mi hanno inviato un virus, presumo, tramite un e mail e infettato il computer, per cui molti file di racconti poesie e altro, a cui stavo lavorando, al momento sono persi. Il virus si è presentato con una scritta in bianco in inglese su sfondo nero. Mio figlio che ha cercato dapprima di capire e risolvere il problema ha scoperto che era un virus che ha sequestrati i file e che, coloro che stanno dietro queste cose, chiedono persino una sorta di riscatto. In pratica chiedono dei soldi per ridare indietro ciò che essi hanno sequestrato. Mio figlio oggi porterà il mio computer da un rivenditore che risolverà il problema, nel senso di eliminare il virus, almeno così si spera. Ai miei file ci tengo, ma non sono disposto a farmi ricattare. Vuol dire che tenterò di riscrivere ciò che che mi hanno rubato. Scrivere è anche riscrivere.
Mese: febbraio 2016
A Giordano Bruno
Marò,
Maronna mia beneritta, p’accummanzà nun sulo a penzare et sustenè
cu studio e ragiunamiento ca lo munno è tunno tunno comme nu milo appiso
‘ncielo ‘nzieme a li stelle, li pianete e ll’ati cuorp’ brillantate pe’ ‘na questione
di forze: e chest’, la matrea chiesa de li cumannante, me minacce assaje assaje.
Chiesa ‘e ‘gnurante e violenti, vonno ca io, lo sottoscritto Giordano Bruno di Nola,
dico e scrivo pubblicamente e annanzo a lo tribunale de l’inquisizione, m’annego
tutto chello ca penso e sostengo: ma comme se fa a disconoscere lo studio de li
cuorp’ celest’ e de li loro rotazione su se stessi e attorno a lu padre d’o firmamento
annommenato sole; ‘o sole che cu li raggi tutto fa nascere e fa ridere la terra sana.
Diciteme d’accidere a n’at’ommo, nu frate, nu monaco, ‘nu puveriello, ”na femmena,
pure ‘nu criaturo appena nato;diciteme ‘e fa peccato mortale e di copulare femmine
di malaffare, ma nun pozzo negare ‘a scienza d’e moviment’ d’a natura. Chesto si,
è disconoscere Dio. Me vonno abbrucià mmiezo a la piazza. Da allora a mmò ve guardo
comm’a nu figlio ca ha perz’a mamma, pate, frate e sore, Dio stesso, ma ‘a verità,
‘a verità vuje l’avite cunusciute: ‘na verità piccerella piccerella, ca nisciuno ommo ‘ncopp’a faccia
d’o munno, pure chillo cchiù gnurante po’ disconoscere, ma a Chiesa d’e sapienti
gnurant’, ‘nzerranno ‘e porte d’e libbre sacri, po’ ancora dicere: – No, nun è accussì. E ssapite
‘o pecchè. Nuje Chiesa tenimmo ‘a verità dint’o tauto. Simmo ‘o centro ‘e ll’universo. –
Sto murenno e mentre more murenno appicciato, penzo ancora ‘e criature ca se moreno ‘e famm’
e moreno dint’a ll’ignoranza, sento i cumpagnielli miei di Nola ca me chiammano
dint’o vico: Brù, jesce a lloca, jesce avimma j’ ‘a pazzià dint’a chiazza, dint’a campagna addò cresce
‘o grano. E pe’ fa crescere ‘o grano ce vò a fatica ‘e l’omini cuntadine.
Mi ricordo
Mi ricordo è la vita di sotto che scorre come il fiume, mentre nel suo cieco andare e nudo di coperte, rimane, soggioga indifferente e prosegue e svolta di poco, s’insinua, s’allarga tra gli alberi a picco. Mi ricordo è il cielo che di sopra figlia le nuvole che corrono come bambini e bambine di qua e di là e hanno gli occhi che s’ingrossano come adolescenti e giovani che d’improvviso eccoli adulti. E’ l’ingresso nel mondo, un gradino e via nella vita.
Mi ricordo
Mi ricordo che quando mi innamorai di Trizia, passando nella curva di via Cappuccinelle, per andare all’oratorio salesiano, tra un palazzetto, un basso murato e l’altro abitato dalla famiglia di Gaetano Arillo, c’era una pianta rampicante dal profumo intenso e ubriacante. Il profumo di quei fiori saliva alle narici, nel cervello e in picchiata scendeva nel cuore. Mi portava dritto a lei. E precipitando a quattro zampe, parlavamo il linguaggio delle fusa.
Scrivere, una lunga pisciata intermittente, compreso la morte, anche l’amore
Io, e non un altro, scrivendo in modo e non significando altro, come fosse più che una metafora, una pizza fritta spacciata per una pizza al forno o un bel piatto di penne con sugo alla genovese o tutt’al più l’alter ego o uno pseudonimo o un eteronimo in atteggiamento laterale e, qui, tra l’altro non c’entrano né Geronimo e né il Gerundio micro o in generale; potete anche non crederci, eppure mi chiamo proprio Gerundio, quando si dice che all’anagrafe degli impiegati stolti, sordi e analfabeti, e non tiro in ballo né l’asino e nemmeno la capra, ho scritto un libro che ha scelto e ha spinto di chiamarsi: Cinquemila pagine, addirittura dopo la sfuriata iniziale dell’incipit, della parte centrale e quella finale, ambigua, perché nonostante fosse finito, potenzialmente e praticamente potrebbe continuare in un altro libro o il suo prosieguo, intitolato: Il libro che non finisce mai. Nel senso di andare a rompere e mandare in frantumi se non il concetto, l’atteggiamento posturale del millenario libro più famoso al mondo eppure meno scritto in senso lato: Il blocco dello scrittore.
Comunque sia, così come viene o come va, il libro che ho scritto, scimmiottando o scopiazzando nessun celebre scrittore, si chiama: Una lunga pisciata intermittente, a prescindere, dall’incontinenza vescicale di tipo artigianale, compresa la morte, persino l’amore. Una lunga pisciata intermittente non è un offesa allo scrivere e tanto meno a pisciare: è semplicemente un momento di raccoglimento, un bisogno fisiologico che va coltivato come un sogno, un utopia, un desiderio di nessuno arricchimento materiale.
Questo perché quando uno scrive, con tutto il trasporto possibile e romantico o proveniente dalla trance poetica o mefistofelica, nel senso di scrittore e poeta maledetto, che è in noi è più una cosa artigianale che chi sa quale sfaccimma di cosa è scrivere o che maronna incredibile e imperdibile sta facendo, ma solo il bisogno, la necessità di una pratica che emancipa, confrontandosi, se stessi.
Artigianale e pisciare, sicuramente combattono dal basso, con tutti gli annessi e connessi con i ferri del mestiere che si fatica a riconoscere tale, ma se vogliamo pure dall’alto, sia il blocco dello scrittore o dello scrivente, ma anche il disagio di esistere, vivere e viversi.
Farfalle
Battono le ali nell’aria ferma.
Soffi astrusi caracollano.
Marmorei giacciono
i colori nel sole,
ventriloquo il vento.
Passerà
Passerà.
Anche stavolta passerà.
Così come le altre volte.
E come una malattia virale,
se ne andrà come è venuta.
Un semplice raffreddore.
Passerà.
Come quando sorge l’alba
e il tramonto chiude la porta
in faccia al sole.
Passerà.
Come il fiore di cui
non sai il nome
se non rossa, bianca e dea,
sai che è la rosa: e, anche
in primavera appassirà,
mortale.
I geloni ai piedi
Mi ricordo quando chiedevo dieci lire a mia madre e lei diceva: – Per chi mi hai preso per la moglie di Rothschild – A me di Rothschild non me ne importava niente però come papà pieno di soldi andava bene specie quando mi servivano le scarpe, i pantaloni e i calzini invernali che in inverno avevo sempre i geloni ai piedi e mamma mi diceva: – Piscia nella bacinella e mettici i piedi dentro. Il prurito ti passerà – Ho pensato che papà Rothschild con tutti quei soldi e le sue conoscenze chiamava un medico e così non avrei messo i piedi nella mia pipì. Però ho pensato che non c’era bisogno di chiamare un medico, perché papà Rothschild mi avrebbe comprato scarpe di pelle foderate e i calzini di lana in modo che offendendo e tenendo a bada il Generale Inverno nella sua spietatezza, si sarebbe tirato indietro, perché non poteva competere con l’uguale fortuna o ferocia o sfruttamento di papà Rothschild.
Il capolavoro di ognuno
La tua mano un capolavoro.
Gli occhi stelle filanti deducibili.
E il viso intenso di madonna atea.
Le movenze sorrisi negli anni.
Il tuo cuore invisibile un capolavoro.
Le labbra tormentate dal desiderio.
La schiena un vessillo senza spine.
La carne affamata della tua bocca.
Le gambe algido capolavoro privato.
Febbrili le vene del Cristo velato.
Lussuriose le dita dell’anima porno.
Il corpo si spegne a monte:
metamorfosi estatica, il capolavoro.
E colonna sonora le stupide canzoni:
ci s’innamorava ancora, un vizio da pivelli,
pesci di cannuccia all’amo, il capolavoro di ognuno.
Mi ricordo
Mi ricordo. M’arricordo. Tengo ott’anni. Enzina sette e miezzo. Stammo pazzianno a nasconnere. Filumena, faccia a muro, inizia a cuntà. Il resto s’annasconne a ccà e a llà. Enzina me zennea e, fujmmo dint’o palazzo a 19. Dint’o vascio, sotto ‘o lietto, di sua zia Fortuna ‘a Ciaccessa (la chiacchierona). Me ienche di baci vavusielli ca sanno di fragolelle. Ciuciunea ‘ntrechessa. E, mette le mani miezzo le cosce. Miracolo! ‘o pesce s’ ‘ntosta comme ‘na mazza. E, ce mettimmo a ridere, mentre essa dice: Tuoccame ‘a pagnuttella.
M’arricordo il primo giorno di scuola ‘lementare. Dopo dieci minuti già stongo fujenno giù per le scale, miezz’a via. Aggia fa ambresso. Dint’e sacche arrepezzate si stà sciuglienno ‘o ghiaccio.
Mi ricordo criaturo. Giocavo con i pensieri, e i giocattoli, rari: scappavano da tutte le parti.
Ricordo l’asilo e a pranzo il piatto caldo e fumante.
Ricordo lei, il suo nome no. Mamma sua la prendeva per mano e io con gli occhi l’accompagnavo fin dove svoltava il vicolo. Poi, di nascosto dalla mamma di lei e di mia sorella Tellina d’o mar’, che non so perché si faceva il pizzo a riso, con le labbra arricciate, le mandavo un bacio nell’aria. Poi, non la vidi più. Era di maggio, il mese in cui le famiglie cambiavano casa, e anche la sua famiglia cambiò quartiere. Era la prima volta che piangevo per una femmina. Avevo pianto per il latte, il pane, le scarpe e ‘o cazone di colore cocozza.
Ho fatto cadere il piatto con i piselli e, lei è venuta faccia a faccia vicino vicino a me. Poi, si è messa a ridere. – Ca ridi a ffà -, l’aggio ditto. Il mucco appiso, sugo e lacrime salate, e lei pulendomi la bocca ha fatto il pizzo a riso. Mi ha offerto il suo e mi ha azzeccato le sue labbra sulle mie.