Sono un uomo fortunato, forse. Ho giocata una quaterna, nemmeno tanto, poi sarà quel che ha da essere. Una mattina mi destai con un pensiero fisso, nonostante qualcuno remasse contro. I colpi servono a calibrare il nulla e l’inutile, ma nessuna medicina guarisce del tutto. Se il corpo è nudo, e l’anima è piena, resisterai ai venti e ai ritorni che sono tappeti nel passato che non sfrecciano nelle strade stridenti.
Uscii fuori. C’era odore di ferri del mestiere. Di fuoco soffiato. E scintille che volavano nell’aria. E di ferro tagliato, saldato. E di umidità. Dall’’altro lato l’uomo con la mascherina di fazzoletto cromava i suoi pezzi da vendere per letti, lampadari e carrellini. E beveva latte. C’era il sole, luce e aria densa. E lo spartiacque di una porta. M’inoltrai nei vicoli stretti, lunghi e bui. Il sole entrava nei pertugi. Vidi lei non appena girai l’angolo.
– Vuoi conoscermi? – mi chiese.
– Si – le risposi.
– Io sono metafora – concluse.
In una metafora prima guardo gli occhi, lo sguardo e la lungimiranza. Poi la morbidezza, il piumaggio e l’apertura delle ali. Lo smuovere dell’aria. Le increspature dell’acqua marina e dell’anima e il precipitare dei fiumi. Il vento che soffia. Che infila le sue dita nei capelli.
Conoscendo le ciliegie e poco metafora, dico che devo nutrirmi di loro due. Delle figure retoriche, una sorta di belle statuine, quelle che mi hanno colpito molto, sono quelle silenziose. Hanno visi angelici e fissi che spurgano sangue vivo.
Un giorno mi raccontarono una metafora sulla mia…
Quando parlo della mia…, l’uso dell’aggettivo possessivo mi è difficile. Mica perché non la sento mia, anzi, lei è mia. Perdutamente. Nei respiri. Nell’aria. Nel fango. Lei è mia, ma non mia perché l’ho deflorata, o mia perché sposa tuttofare o amante a mezzo servizio. Anzi, più è mia perché di mia proprietà più loè lontanamente. Più lei è lontana, perché irrecuperabile e tragica, più lei è in quei fondali di abisso, più lei è solo mia. Di una materia sognante. Abbandonata. Scorre nelle mie vene. E’ cellula su cellula del mio corpo. Anzi, l’amo. E visceralmente la misi a ferro e a fuoco.
Ero amante perso nell’amore. Sorrise, e mi sfiorò la bocca. E così ho ascoltato metafora che diceva: Quando ci tocchiamo, il nostro, per essere vivo, duraturo ed eterno, è il non amore. Quando sogni, per realizzarne di più belli, sogna il peggio. E, avvelenati. Quando stai volando, precipita e schiantati da settemila metri, che i tuoi resti saranno comunità. Quando ridi ricordati di piangere.
E quando esci di casa pensa che non ci tornerai più. Che la meglio metafora, la più grande metafora in assoluto sei tu. Chiamai a raccolta duemila donne e dopo che parlammo e parlammo e alla fine dicemmo:
La metafora dell’intera vita sei tu.
Perché tu sei un avvallamento, una collina, una caverna, un cunicolo, un torrente, una sfera, un tornante, una pianta di rose e spine, un animale autentico, una mensola levigata, una strada accidentata, la luna con e senza stelle. Ma innanzitutto tu sei un secretaire pieno di segreti che vibrano. Tu sei piena di cassetti, cassettoni e altri cassetti.
E ancora cassetti, cassettini e altri più piccoli in cui c’è sempre il pieno e il vuoto e la metà di ogni cosa e granelli, briciole, profumi, scaglie di riso. Per quanto pensiamo e crediamo di sapere i tuoi segreti, siamo sempre lontano dal conoscerti. Sei una miniera di dettagli e insieme fanno la polpa della vita. Oltre che la vita stessa.
E ti defili. Volatile. Sanguinaria. E, perduta.