Opere di Telemaco Signorini



Dovevamo vederci nel pomeriggio in quattro me compreso.
(un vero miracolo:occasione unica e rara)
Avevamo appuntamento vicino scuola di pomeriggio alle 16.oo.
Pietro venne con la macchina una cinquecento topolino.
Ero emozionato così ogni tanto andavao a fare pipì sotto il muro.
Non ero mai salito in una topolino e nenache in una macchina.
Passarono cinque, dieci, quindici minuti e noi due avevamo le facce lunghe.
Poi ecco Giovanna e Patrizai spuntare dall’arco fuori lo spazio del grande cortile dei conti
Tarsia. Ci guradammo e subito ci sorridemmo: ci stavano venendo incontro: erano loro.
Ci salutammo ma non ricordo se baciandosi sulle labbra o dandoci la mano ma tutti e
quattro eravamo lì del tutto convinti e contenti. Quasi quasi mi piasciavo sotto, ma per
fortuna niente, di nascosto avevo messo la mnao nei pantaloni per constarare se lo slip
fosse asciutto: lo era. Tirai un sopsiro di sollievo. E guardavo Patrizia incantato. Felice.
Una volta in macchina mentre Pietro si destreggiva nel traffico ci dirigevamo all’isolotto
di San Martino su cui non c’ero mai stato. La bellezza dell’isolotto e del mare e Patrizia
vicino a me e mano nella mano toccavo qualcosa di irripetibile, sognante, amorevole.
Patrzia e io parlavamo e camminavamo per fatti nostri e un po’ distanti Giovanna e
Pietro. Non sono come ma le dissi che scrivevo poesie e che gliene volevo recitare una
tra quelle che avevo scritto la sera prima mentre pensavo a noi due e al fatto che lei il
giorno dopo sarebbe partita per Ischia.
-Con chi vai la tua famiglia?-
-No, con mia zia, la sorella di mamma.-
-E quando torni?- le dissi.
-A settembre.-
-No!- dissi urlando.
Allora per conquistarla per sempre, l’estate nasconde sempre pericoli per gli innamorati,
ma pur se affranto e distrutto le dissi che volevo recitare almeno una delle poesie che
avevo scritto la sera prima e che la dedicavo a anche perché l’avrei aspettata.
Quando misi la mano in tasca ne presi una a casaccio e col cuore in gola che mi batteva
più forte del solito, mentre le recitavo la poesia, sapevo che il tempo mi avrebbe
martoriato finché non fosse arrivato il primo giorno di settembre.
Poiché non ci saremmo rivisti per un sacco di tempo lessi sia A Silvia che L’Infinito.
Almeno mi abboffavo delle due poesie e di Patrizia finché non finiva il meriggio.
A Silvia
Silvia, rimembri ancora
quel tempo della tua vita mortale,
quando beltà splendea
negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
e tu, lieta e pensosa, il limitare
di gioventù salivi?
Sonavan le quiete
stanze e le vie dintorno
al tuo perpetuo canto,
allor che all’opre femminili intenta
sedevi, assai contenta
di quel vago avvenir ch’in mente avevi.
Era il maggio odoroso; e tu solevi
così menare il giorno.
Io gli studi leggiadri
talor lasciando e le sudate carte
ove il tempo mio primo
e di me si spendea la miglior parte,
d’in su i veroni del paterno ostello
porgea gli orecchi al suon della tua voce,
ed alla man veloce
che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno
le vie dorate e gli orti,
e quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
quel ch’io sentiva in seno.
Che pensieri soavi,
che pseranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
la vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
un affetto mi preme
acerbo e sconsolato,
e tornammi a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
perchè non rendi più
quel che prometti allor? perchè di tanto
inganni i figli tuoi?
Tu pria che l’erbe inaridisse il verno,
da chiuso morbo combattuta e vinta,
perivi, o tenerella. E non vedevi
il fior degli anni tuoi,
non ti molceva il core
la dolce lode or delle negre chiome,
or degli sguardi innamorati e schivi;
nè teco le compagne ai dì festivi
ragionavan d’amore.
Anche peria tra poco
la speranza mia dolce; agli anni miei
anche negaro i fati
la giovanezza. Ahi come,
come passata sei,
cara compagna dell’età mia nova,
mia lacrimata speme!
Questo è quel mondo?questi
i diletti, l’amor, l’opre, gli eventi
di cui cotanto ragionammo insieme?
Questa è la sorte dell’umane genti?
All’apparir del vero
tu, misera, cadesti:e con la mano
la fredda morte ed una tomba ignuda
mostravi di lontano.
L’Infinito
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quïete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.
-Bravo!Bravo!Bravo! – disse Patrizia con gli occhi teneri e commossi.
-Certo. Forse devo dire che A Silvia è un po’ troppo lunga.-
-E ‘ bella tutta.- disse sorrise e si rannicchio sul mio torace.
E ci baciammo.
-Però dentro e fuori scuola parli sempre in dialetto. E adesso invece… –
– Mi piace parlare in dialetto, ecco.-
Mi prese la mano, poi dopo due metri la tenni col braccio nel fianco.
Lei si giro guardandomi negli occhi e ci sfiorammo le labbra.
Stavo morendo ma non dissi niente.
E non volevo morire: volevo Patrizia.
E quel nome lo trovavo anche stupido.
Però anch’io mi trovavo ancora più stupido.