2. Sotto testo slegato ma probabilmente ambiguo perchè interconnesso, all’epidermide. Ciò che pensi o che potresti pensare e quello che vago aleggia e che rimane ai lati e più giù giù. 3. L’amore(che occupa i nostri pensieri)si nutre per forza di cose di natura. L’amore e l’innamoramento e il sesso sono di natura come l’acqua del fiume che a monte nasce carsico come il serpeggiare della vita. Cielo che muta così i pensieri che s’infiltrano nei rapporti reali, presunti o a metà. Federico Di Nardo raccontò quella sera al Roxi bar che c’era quella donna che subito si era resa piacente e disponibile sedendosi con la gonna il cui spacco si allargava. Poi lei volle incontrarsi e insieme andarono in una pensione a ore. Lei subito iniziò a baciarlo e a raccontargli del marito con cui faceva poco e niente, anzi niente e nemmeno con desiderio, foga e piacevolezza. E poi gli racconto delle figlie: due belle ragazze diceva. Devi conoscerle assolutamente. Devono vedere di cosa sono capace. Quando poi le conobbe, ma forse già prima, lui, pensò a quale strategia miglior da usare, attraverso la loro madre innamorata, per farci, separatamente, all’amore. Che follia. Ma il pensiero non risultò affatto folle. Era un pensiero che giorno per giorno imbarca le due figlie e la madre. Mutavano gli orari.
Nonna-Nunnarella (in fotografia)da giovane. Bella comme nu sciore, accussì diceva, nonno Alfredo.
Nonna vecchia assaje, senza rient, a pelle arrugnata, chiù curtulell, ma ‘o bene quant na muntagna ca sapeva ‘e pane.
Parlammo, si acquietò. Le dissi che l’università non era così bianca e così celeste, c’era polvere, penombra e aria guasta. Però si studiava parecchio e il mio professore di glottologia aveva mostrato molta curiosità per chi come lei conosceva a fondo il napoletano. I professori, le spiegai, avevano stima per chiunque conoscesse bene qualcosa, sicché non si doveva preoccupare, mi avrebbe fatto fare sicuramente una figura splendida. Certo, non avrei avuto bisogno di lei per tutti gli esami, per italiano sicuramente no, nemmeno per grammatica greca, nemmeno per latino, ma per glottologia si, per quelle schede sì. Anzi senza di lei sicuramente avrei perso un sacco di tempo a disturbare questo e quello, meno male quindi che avevo una nonna così. Eccetera.
Piano piano si convinse, cominciò a girare tutta curva per la cucina. Si guardava intorno, apriva cassetti, sfiorava gli oggetti che le capitavano sottomano come per trarne ispirazione. Ne prese uno, era un mestolo bucherellato, e fece un sorrisetto di imbarazzo, si sforzo a pronunciare il primo vocabolo di quel nostro lavoro. Lo pronunciò in cautamente, in modo innaturale, come se – considerato che quella parola doveva servire a me – la pronuncia quotidiana non fosse adeguata, bisognasse darle un po’ di finezza. Pirciatèlla, disse, e sillabò a modo suo il vocabolo: pi-rcia-te-lla. Lo fece due tre volte , soffermandosi su -cià e soprattutto su -lla, lentamente.
Mi sembrò che stesse mettendo con la voce un belletto alla parole, per fare in modo che quando l’avessi scritta nientemeno che sulla scheda, sembrasse degna dei signori dell’università. Poi aggiunse, forzandosi a usare anche un po’ di italiano come se, rivolgendosi a me, si rivolgesse ai professori o alla glottologia stessa: è comm’a votapèsc – vo-tap-sce-, che fa percià l’uoglie della frittura dalla mensola tutta bucata, o comm’a scolapasta -sco-la-pa-sta -, che i buchi fanno sculà l’acqua, o comm’a pirciatèlla della macchinetta do ccafè, che scende l’acqua scura ed è ccafè – ca-fè-, o comm’e pirciatièlli – pi-rciatie -lli-, ‘o maccaronebbuchill, guagliò, pirciàto, da pircià, la colatura che viene dalle cose bucate, escrìtt?
Avevo scritto, in fretta, a matita: pirciatèlla, votapesce, uoglie, skolapaste, cafè, pirciàtelle, percià, perciate. E altre parole arrivarono subito dopo, una catena di suoni sempre meno timorosi. Ne fui contento e insieme sconcertato. Mia nonna – mi sembrò – si stava come raddrizzando. pareva che in lei ci fosse davvero un accumulo di metallo sonoro e che ora quel metallo s”andasse infuocando di frase in frase. agendo sugli, sulla mobilità del viso, sulla sua stessa struttura ossea. Questo mi colpì positivamente, e tuttavia mi disturbò il confuso sforzo nobilitante che lei mi stava imponendo.
Parla normale, le dissi subito, già quando cominciò con la pirciatella. Ma a lei, in quel momento, la normalità sembrava una diminuzione, e restasse. Mise, per esempio, le finali a tutte le parole che seguirono, cocciutamente – rattacàsa, caccavèlla, tièlla, tiàna, buttèglia, macinièllo -, e fu quella la cosa che mi indispettì di più. Chisto è ‘o macinièllo, diceva, e io sentivo un disagio, quasi un malessere, in principio senza ragione.
Presto però fu il mio stesso dispiacere a orientarmi. Avevo sempre detestato, del dialetto, l’assenza delle finali, quel loro perdersi in un suono indistinto. Mio padre, che so, strillava con mia madre – addò cazze si ghiute accussì ‘mpernacchiata? -, e le parole gelose si slanciavano da lui a lei cercando di colpirla con z, con t, che annaspavano senza vocale, denti che volevano azzannare e invece mordevano ferocemente l’aria
Domenico Starnone Vita mortale e immortale della bambina di Milano pagg. 111,112, 113
Secondo me, che sarei io, decisamente io, perchè non posso evitare di dire io, se tieni qualcosa ncapa, intorno e dentro la testa, devi scrivere. Devi scrivere, altrimenti niente. Se non scrivi non sei neanche un poco uno scrittore. Se non sei neppure uno scrittore stai proprio accis, ucciso. Stare ucciso non ti completa. E non solo, perchè quando muori(statt attient) sei incompiuto, ma una specie di buco nero di cui possiamo pensare di tutto, ma non sappiamo niente. E un sacco di te rimane così, sospeso che sia le gente che il tuo io avranno ricordi e un costrutto nebulosi tipo una nebbia fitta e diffusa che ti impedisce di vedere persino a un metro. E -, statt attient -, succede che non sai dove metti i piedi.
La vita è storta presenta anse e tornanti anche in pianura e l’uomo cerca di renderla lineare, mentre il tempo, a parte la cocciutaggine dei verbi, è una linea retta. Per inquadrare la vita e il tempo ricorriamo alla disposizione delle immagini quali luoghi fisici tramite i ricordi e la memoria immortale più della materia del corpo.
…Ma quei suoni affollati di mia nonna non erano riducibili a nessuna bella e buona pagina, la letteratura si ritraeva, si si ritraeva l’alfabeto, anche la grafia fonetica. Ci fu un momento – mi sembrò – in cui non parlava più soltanto lei, parlava sua madre, sua nonna, la bisnonna, e dicevano parole che suonavano prebabeliche , parole della terra, delle piante, degli umori, del sangue, dei lavori, il vocabolario delle fatiche che aveva fatto, il vocabolario delle malattie gravi dei bambini e degli adulti. L’artèteca – diceva/dicevano -, un’inquietudine insopportabile che non si sa come calmare; i rescenziell, un precipitare convulso, a occhi smerzati, nello svenimento; e l’ammore, il bacio, ‘o vase, ah vasarsi, guagliò , nuncestanientecaèbellocommenuvase, tutt’abbracciati, stritt-stritt, e si nun capisce cos’è vasarsi, chesturiaffà?
Domenico Starnone,Vita mortale e immortale della bambina di Milano, pagg.118