Dal nostro inviato a Monaco di Baviera Claudio Tranchino riceviamo e volentieri pubblichiamo: A Giulio Regeni, che è morto nel febbraio 2016 e continua a morire tutti i giorni

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Mi chiamo Giulio e sono morto. Ho 28 anni anche se ora dovrei averne 30. Al tempo della mia dipartita lavoravo alla tesi di dottorato sui sindacati egiziani per conto dell’università di Cambridge ed ero pieno di fervore politico, di voglia di sapere e capire; di conoscere i meccanismi del nuovo Egitto dopo le primavere arabe.

Ho lasciato tanti anni fa il Friuli e Fiumicello, la mia città. I sapori di quella terra che di fronte a se ha i confini nord-orientali dell’Italia sono figli dei Romani dell’Impero d’Occidente, dei bizantini e dei Franchi . Di sera quando uscivo con gli amici, ai tempi del liceo, si poteva sentire il fiato di drago della bora triestina mentre finiva il suo corso e smetteva di sospingersi nell’aria verso altra aria. Provavo a seguirne il flusso invisibile, avanti e sempre più avanti, fino a perdere lo sguardo nel futuro. La bora mi ha insegnato a guardare cosa c’è davanti, a seguire i passi l’uno dopo l’altro senza perdermi. Sulle ali perpetue della bora ho viaggiato fino al Nuovo Messico. Caldo torrido ed edifici di mezza altezza. Ho sempre avuto con me i quaderni del carcere di Gramsci. Difficili, complessi, emotivi e più colorati di una cella carceraria. Ho studiato l’arabo, loro leggono da destra verso sinistra e noi facciamo il contrario. Ho provato ad incontrare l’arabo nel mezzo, fermandomi a metà di una frase e ragionando da occidentale, ma esistono lingue nelle altre lingue, come quella feroce del Potere reazionario ad esempio, sempre affamata di oppressione e controllo. Può vivere e godere della vittoria quotidiana solo ammazzando le spinte creative e diversificanti degli strati figli già morti di una storia già scritta. Poi c’è quella che viene dalle viscere calde di chi sa che per vivere deve soccombere e agognare. Lì nascono ceppi di lotte umane e politiche che possono assumere forme violente e contraddittorie, ma muovono i fondali grigi dei canali artificiali partorendo flore e faune sconosciute ai regimi.

“Dei fatti maturano nell’ombra, perché mani non sorvegliate da nessun controllo tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora. E quando i fatti che hanno maturato vengono a sfociare, e avvengono grandi sventure storiche, si crede che siano fatalità come i terremoti. Pochi si domandano allora: «se avessi anch’io fatto il mio dovere di uomo, se avessi cercato di far valere la mia voce, il mio parere, la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo?”

Ho letto questo passo di Gramsci un pomeriggio torrido in Nuovo Messico. Faceva caldo e avrei tanto voluto sentire gli schiaffi della bora sulla pelle. Un po perché quando si scopre un fatto terribile, che è sempre esistito ma col quale l’individuo ci fa i conti all’improvviso secondo i tempi della sua storia personale, si sente la mancanza di casa, di quell’aria amica, tana contro ogni insicurezza e punto di ripartenze nuove e spontanee. Ma c’è dell’altro. Un sentimento che germina nelle testa e nel cuore. Un’idea che diventa  una lente che pulisce la realtà di ogni filtro nobilitante e fa sentire il vero odore del sangue, tastare la consistenza dei grumi di sale nel corpo di ogni essere che vive obbligatoriamente sotto mentite spoglie. L’idea di rivoluzione. L’idea di se come ingranaggio che può inceppare insieme ad altre piccole rotelle l’intera macchina. La parola e la mano devono incontrarsi e scontrarsi sul terreno dei fatti, che vanno compresi e modificati. La parola della storia ci dice che gli antichi egizi hanno costruito le Piramidi, disegnato i geroglifici, dato vita alla civiltà. E la mano? È morta. La mano di tutti gli schiavi uccisi, di tutti gli operai caduti dalle impalcature, di tutti gli ebrei inceneriti, dei migranti siriani con le bombe alle calcagna. E la mia. La mia mano è morta e continua  a morire tutti i giorni. Posso sfatare un mito. La morte non è assenza, ma vita che muore ogni istante. Ricordare la mia storia, tutte le storie di chi è morto per la storia e sotto il regime di un potere disumano, non ha alcun significato se la mano di chi vive non impugna la coscienza politica e si riappropria del proprio corpo sociale.

Sono morto, sotterrato a Fiumicello. Ma sono anche seduto sulla punta di una Piramide e vedo il deserto. Immenso, arido e senza confini. Accanto a me siedono corpi senza viso che aspettano e io muoio ancora, e ancora, senza poter sentire più il soffio di drago della bora.

Dal nostro inviato a Monaco di Baviera Claudio Tranchino riceviamo e volentieri pubblichiamo: A Giulio Regeni, che è morto nel febbraio 2016 e continua a morire tutti i giorni

Il ricordo e l’oblio: il treno e i suoi vagoni

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Credo che leggere sia più importante che ricordare ciò che si è letto. A meno che non si eserciti un mestiere in cui bisogna dar sfoggio ciò che si è letto e studiato tipo un attore, un medico, avvocati e professioni declamatorie. Diciamo che ricordare i libri, il contenuto e i personaggi si avvicini molto al nozionismo, ciò non toglie che sia davvero meraviglioso ricordare tutto quel che si è letto, ma è anche praticamente impossibile. A meno che non si è ricevuto il dono, o meglio la capacità, di una memoria fotografica. Tra l’altro già, tra Cinquecento e Seicento, c’era già chi faceva uso di mnemotecnica per ricordare tutto. Comprai anni fa un libro(che ho da qualche parte e che adesso vorrei tanto trovare subito …) di una scrittrice inglese Frances non ricordo cosa, che citava in particolare un autore italiano che aveva ideato una mappa per ricordare il passato e tutti le persone e i luoghi in cui si era vissuti. Comprai quel libro, poiché stavo affrontando memoria e scrittura con uno scopo preciso: non solo ricordare il passato tout court, ma muovermi nel palcoscenico del passato a partire dai luoghi, anche se non molti, in cui mi ero mosso a quel tempo. Insomma disegnare una sorta di mappatura come se mi trovassi in una sorte di doppia toponomastica … del contesto fisico e anche dell’anima e delle emozioni.

… Caspita, della serie: che culo!, l’ho trovato, proprio alla mia sinistra sulla quartultima mensola della libreria bianca di JKEA … Ecco il libro, copertina bianca, e in alto un immagine di un quadro in bianco e nero … in cui sono raffigurati tre volti presi di fronte e di profilo che rappresentano tre età. Edito dalla Einaudi tascabili e sotto il titolo compare lo struzzo nell’ovale. Autrice: France A. Yates. titolo del libro: L’arte della memoria.

Ecco quanto trovo scritto di mio pugni dopo che iniziai a leggerlo anni fa: Gli anni
Mettere gli anni nei loro loci.( Escogitai anche di mettere vicino agli anni anche qualche fatto accaduto e una canzone …) A fianco un suono o un rumore, persino una parolaccia, una voce di bestemmia, un nome, un viso, un corpo di donna, bambino o altri. Anche di qualche animale con cui si era a contatto nel vicolo. Ricordo che mamma comprò una gallina per ricavarne delle uova. Ricordo che si chiamava Nanninella e che spesso accarezzavo la testolina e mi divertivo perché a un certo punto lei si addormentava e quando si svegliava perché scappavo via a giocare con i miei amici, lei destandosi, e allarmata, guardava in ogni direzione. Andava bene ricordare un letto, un materasso, eventuali cimici o scarafaggi, topi e zoccole di fogna. Cani come Tittinella ‘a cana che gironzolava nel vicolo con i suoi sempre numerosissimi figli. I ragni con le zampe lunghe che frequentavano i posti umidi. Il cesso che in certe case era dentro, in un angolo come un pugile alle corde, e in altre fuori, anch’egli freddo in uno spazio minimo. Insomma muoversi in quei luoghi come in una mappatura mnemonica … e quindi andata e ritorno … e scrivere, ricordare, scrivere, rivivere e scrivere.

Tra le pagine 184 e 185 del libro della Yates c’è un foglio piegato in tre in cui compare un disegno mappa e lateralmente in alto c’è scritto: IL TEATRO DELLA MEMORIA DI GIULIO CAMILLO.

Più in basso al centro del semicerchio dell’immagine grafica c’è scritto: LE SETTE COLONNE DELLA CASA DELLA SAPIENZA DI SALOMONE.

Dietro il primo foglio dopo la copertina vi è la stampa di un personaggio maschile giovane nudo che ha un cappello in testa e nella mano sinistra regge un candelabro sormontato da sette candele e più sotto ai piedi una scritta in latino. Trovo scritto di mio pugno: La luce(la ragione, la razionalità) dovrebbe squarciare il buio e l’oscurità.

Anche Giordano Bruno si interessò molto all’arte della memoria.

Il ricordo e l’oblio: il treno e i suoi vagoni