Mi ricordo quando sono morto

Avevo le labbra di un bambino, gli slanci della coda di un cane e, lasciavo i peli bianchi della mia pelliccia di piccolo orso che lasciavo in giro perché ero rimasto indietro e ancora i denti di latte, le braccia di due rami di un alberello battuto dal vento e i sogni erano attaccati alle nuvole e al freddo precipitavano da sopra e sbucavano da sotto. Cercavo sempre di metterle in tasca, intendo le nuvole, ma quelle, uscivano fuori da tutte le parti. Quando sono morto dormivo come un ghiro appena sposato alle ghiande e alle castagne. Avevo la coda di lucertola e mi muovevo a mio agio come un gabbiano a svolazzare. Stavo bene quando sono morto, non piangevo. E ho ricevuto delle dure critiche che le critiche son diventate celebri. Il fatto era che di lacrime non ne avevo più perché correvo veloce, e le lacrime, s asciugavano come i panni stesi del bucato stesi al sole, mentre abbondavo in risate originali e sorrisi schietti. C’era chi diceva che avevo la faccia tra un pagliaccio, un saltimbanco e un poco di buono visto che una mia fidanzata, mia moglie, la terza e la mia amante russo cubana, quando a loro giravano le scatole mi tradivano per una manciata di fave con la pasta militare. Un po’ come quando molti soggetti affittano case sgarrupate o quei bassi umidi e malsani e vi stipano i migranti. E più ne mettono e più guadagnano senza dichiarare nulla al fisco. E la domenica vanno a messa. Mangiano il corpo e bevono il sangue di Cristo. Pure contriti. E si assolvono. Dai peccati. Che ci sono più peccati di questi peccati, dicono loro. E poi, dicono, non far sapere queste cose che è meglio quando gli altri non sanno i fatti tuoi. Avevo la testa sfasciata come il corpo di una mucca o di un agnello, le ascelle e le budella in bella mostra, condite con l’alloro e la salvia: in quelle condizioni non potevo andare in giro o presentarmi da qualche parte. E così sono morto. Ridevo.

 

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